Stanze

Guida piano e composto la sua Jaguar. Stringe il volante in pelle con la mano sinistra e il cambio in acciaio con la destra: caldo, freddo. Fuori si gela, dentro si respira la stessa aria che c’è fuori ma scaldata dai tubi che corrono vicino al motore. La radio suona per sé.

E’ teso. Molto teso. La decisione è presa e non tornerà indietro.

Apre la porta blindata con la chiave lunga, quella che ha sempre odiato perché non sta in nessun pantalone. Appoggia la The Bridge a terra, vicino allo spiraglio delle luci neon a pavimento costate 1.352 euro. Ricorda ancora la fattura. Le ha volute lui perché gli piacevano con il pavimento bianco, lo stesso che aveva visto su AD. Sfilandosi il Moncler sente cadere un bottone della giacca a terra, è il secondo della manica destra, lo sa, non ha bisogno di guardare, era da qualche giorno che pendeva tenuto su da un niente. Lo lascia lì a terra: staccato.

- Ciao tesoro.

- Dobbiamo parlare.

E dicendolo si siede su uno dei due sgabelli che hanno voluto di contorno alla penisola della cucina. Stupenda. La cucina è nera. Stupenda. Unisce design, funzionalità e robustezza. Stupenda.

- Certo. E’ successo qualcosa al lavoro?

Mentre lo dice però non lo guarda. Continua a tritare le verdure dandogli la schiena. Vicino ai lavelli quadrati. Stupendi.

- Smettila, dobbiamo parlare. Ascoltami.

Aggancia le gambe allo sgabello, tiene la schiena dritta e allunga una mano fin sopra la testa bionda del bambino dentro il seggiolone Foppapedretti agganciato alla penisola. Stupenda. Lo accarezza una volta. Gioca con qualcosa, è impegnato.

- E’ finita. Non c’è molto da dire. Non ti amo più.

Le guarda i capelli castani perfetti che cadono sulle spalle. Il corpo da ginnasta fasciato nel vestito “fumo di Londra” che le ha regalato lo scorso fine settimana. Non ha mai visto nessuna donna così elegante cucinare, così composta. Lei lo è sempre stata: era un pregio, era motivo di fascino, se l’era immaginata così fin da ragazzo. Era.

La osserva. Lei continua nel suo lavoro. Non dice nulla. Si volta appena per prendere dell’altra verdura dal lavello. Scopre il profilo, il mento leggermente a punta che vorrebbe ritoccare dal chirurgo.

La guarda e si rende conto di quanto l’abbia amata, desiderata e vissuta.

Forse sta per avere un’erezione.

- Non dici niente?

- Cosa vuoi che dica? Cosa vuoi sentirmi dire? Che strada vuoi che prenda la storia che stai scrivendo? Come te l’eri immaginata?

Lui ascolta le sue parole. L’ha sempre ascoltata. E’ per questo che per così a lungo sono stati uno. Si accorge del leggero tremolio che le prende l’estremità destra del labbro inferiore quando è nervosa. Pensa a lei come ad una statua. Perfetta, stupenda. Una statua che trema, viva. Trema impercettibilmente. Lui sarebbe disposto a morire se la dignità di lei fosse in pericolo.

Ama la sua intelligenza. Lei sa già tutto. Sa che non ci sono motivi. Sa che è lei la più forte, o almeno che è quello il compito che le è stato dato e che non ha rifiutato. Sa che è grazie a lei che è diventato e sarà, anche senza di lei, Lui.



(La mente umana è un vortice buio nel cui abisso si intravede una luce fioca. Quella luce è una promessa. Non “La Promessa” ma “una promessa”, perché è di tutti).



Allora lui continua. Assolve il compito che si è dato. Che donna straordinaria pensa.

- Non ti amo più e basta. Non ci sono motivi. Non ci sono donne, non ci sono perché. Non ti amo e ho paura. Ho paura e scappo. Ho paura che mi manchi la parola ancora. Ti guardo. Guardo tutto questo e mi sono stufato. Mi manca l’aria. Si adesso. Non prima, mi manca l’aria adesso.

Nostro figlio non lo voglio. Non lo amo. Non mi interessa cosa sarà da grande, chi sarà. E’ una persona che non mi interessa e non mi interessano gli scompensi che potrà avere per la mancanza di un padre. Non lo voglio e basta. Non vi voglio. Non voglio più nulla che sia tutto questo e non mi dispiace.

Non sento il bisogno di chiedere scusa a nessuno.

….

Non voglio morire così. Non voglio morire dopo una vita così. Così. Così. Così. Così come si dovrebbe.

Lo so che capisci. Capisci perché eravamo noi. Capisci perché ti ho portata dentro di me. Ti ho fatto guardare. Eravamo uno. Capisci perché eravamo. Plurale, plurale, plurale! Plurale! Plurale! Plurale! Plurale! Plurale per indicare uno! Uno! Capisci!

Non vi mancherà nulla.

Si alza dallo sgabello. Lei posa il coltello, sciacqua le mani e si volta. E’ proprio come l’aveva sempre sognata. E’ lei e non sarebbe potuta essere nessun’altra.

- Vattene!

Vai, non perdere tempo.

La guarda per qualche istante. Cerca una risposta ad una qualsiasi domanda. Rimane in piedi di fronte alla statua. Fissandola. Stupenda.

Va verso l’ingresso senza curarsi del bambino. Rinfila il cappotto. Lascia la valigetta lì dov’è, prende le chiavi dell’auto. Esce.

Nel silenzio dell’ampio ascensore pensa al suo bottone: per terra, in mezzo ad un corridoio bianco illuminato con delle luci a neon. Solo.


 
 
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