Interior al aire libre

Il tempo si arrotola negli invisibili e leggerissimi vortici d’aria che invadono il porticato. E’ il tempo perfetto. Lo scorrere percepito, individuabile, governabile: il tutto.
Rallento il respiro, assaporando in bocca il dolce profumo di rosa mescolato a note di mimosa. Intravedo nell’ampolla che contiene il fresco bouquet gli steli recisi. Li sento dolere, li percepisco tra le dita. Attenuano con la loro lacrima di linfa, che scorrere già tra i polpastrelli, la pressione che esercito sui braccioli del dondolo. Pressione, equilibrio. Equilibrio, immobilità dinamica. Immobilità dinamica, obbiettivo. Obbiettivo, vita.
Il legno preme sui palmi privi di calli che sento infuocarsi per chiedere un cambio di posizione. Desisto dal concedermi il consueto accontentare il corpo.
Ripenso all’accetta che da bambino rubai nel capanno della servitù, e trascinandola fino al ruscello iniziai ad abbattere i piccoli arbusti circostanti. Ero Tom Sawyer: mi mancava la zattera. Con scoordinata fatica colpivo la natura quieta di una tarda mattina primaverile, ed essa quieta, moriva inerme vittima dei miei sogni. Ricordo le mani infuocate, arse dal legno del manico dell’accetta che brandivo per produrre altro legno. Ricordo i rami a terra, gli arbusti mutilati, la zattera incompiuta.
Ricordo l’acqua del ruscello: rigenerante come la carezza di una madre nel lenire le ferite. Ricordo il cinguettio dei passeri in festa, liberi, muti ma cantori, differentemente dal piccolo e canuto uccelletto chiuso in gabbia che ho da poco riportato dalle Americhe. E’ sopravvissuto ai tre mesi di viaggio, sotto coperta, senza cielo, saltellante sul suo trespolo ondeggiante. Ha visto morire un terzo dell’equipaggio per fame e malattia. Lo presi a Mulberry Street, da un uomo grasso e sporco che da un carretto estraeva ogni sorta di bizzarria. Mi disse che era un uccello sacro per i Lenape, gli abitanti di Manhattan prima degli europei, che era una rarità, che viveva cent’anni ed era in grado di parlare. Me lo offrì per l’orologio d’argento che portavo al taschino, lo portai via per pochi spicci: forse non era poi così sacro. Sarah lo accudisce con l’eleganza infastidita di chi riceve un regalo sgradito e ogni tanto si lamenta di sentirgli pronunciare dei versi che somigliano ad imprecazioni, dice che quel pennuto “potrebbe tranquillamente passare per un’Irlandese”.
La guardo mescolare il tè con estrema delicatezza, per non picchiettare con il cucchiaino la tazzina, per non disturbare. Lei è così, ed ora mi appare nel suo essere profondo. Donna, femmina, madre mancata e sofferente, vogliosa di riscatto, piena di vita ma orribilmente rassegnata ad essa. Sarah è una melodia incompiuta, un’Opera straordinaria ridotta a motivetto da un’orchestra mediocre. E’ una vita consueta. Eppure la sua chioma raccolta mi ricorda una corona da principessa, anzi da regina. Le sue forme tonde e sicure sono un inno al piacere delle carni, il suo intelletto curioso soddisfa lo spirito, è una musa di libertà. E’ “La liberté éclairant le monde” che accoglie le preghiere alle porte della città dei sogni sul fiume Hudson, irta, silente, misteriosa, rassicurante e malinconica: come Venere sull’Olimpo sovrasta Bedloe’s Island. Anche Sarah è un dono, è un sacrificio, è i rami a terra, gli arbusti mutilati, la mia zattera incompiuta.
Riparto melanconico da questo non luogo del tutto. Da questa spaventosa chiarezza, disturbato dal fruscio dell’agave e dalla finestra che sbatte sospinta dall’ultima brezza estiva.
Ritorno al vecchio mondo, al niente, alle Indie che verranno, al primogenito che non giungerà mai, al prossimo arrivederci con Sarah con la speranza segreta nel cuore di entrambi che si tratti di un addio.
 

L'importanza del tempio

Il tempio è un consacrato involucro di rifugio. E’ una tregua, un tramite, una coperta d’infanzia divenuta troppo corta. L’importanza dei templi non risiede nelle divinità che rappresentano o presumono di contenere, se mai fosse possibile contenere un Dio, ma nelle preghiere di chi vi entra.
L’importanza dei templi è soprattutto nelle richieste di perdono. Il perdono implica una presa di coscienza. Il perdono implica una morale. Il perdono chiesto in un tempio implica il riconoscimento di un Dio, di un Salvatore: un Salvatore che ci salvi da noi stessi.
La richiesta di perdono, quando sincera, è la vita che si palesa, la comprensione della volontà di senso che ci tiene uniti, l’uno all’altro, perché il senso è nell’alterità, l’alterità ci permette la comprensione dell’Io. Siamo animali sociali per necessità, per egoismo, per avidità. Il pentimento invece è materia cristallina, pura, trasparente, impermeabile ma pur sempre materia.
I penitenti saranno tutti salvati da Dio che, se realmente tale, non li perdonerà.
 

Il tempo esatto


01.09, i numeri che regolano il tempo racchiudono significato.
1.10, rimango in attesa.
1.11, niente.
1.12, la follia sarebbe non provaci. Non provare a scardinare l’ordine del tempo. Ogni cambiamento è tale perché scuote irreparabilmente l’ordine stabilito dai numeri. La poesia è nella perfezione dei numeri o nel prendersi gioco di loro.
1.13, 2+2= 4, questo è il tempo che ci accoglie e ci imprigiona. 2+2=4, ci conforta come una madre protettiva dalla quale pare impossibile liberarsi.

Molto tempo fa, non ricordo il tempo esatto.

Sono
di ciò che ero,
e sarò
ancor d’ esso,
credo
in questo processo,
masochista e consolante.

Ora, tempo esatto: 01.21

Respiro,
aria e asfalto
si mescolano al silenzio
di un balcone aperto.
La notte profumata racconta
suoni di vite,
immagine singola.

Bisogna provarci. Devo provarci. Dobbiamo provarci. Poesie.
 

Vento immobile

Il tempo, questo tempo, è come una prigione beffarda. Una cella stretta e lunga con una piccola finestrella ferrata dalla quale entra luce fioca di giornate senza stagioni, senza orari: luce, buio.
Rimango a guardare la finestrella nella speranza di veder passare per un istante qualcosa: una nuvola, un gabbiano , la scia di un aereo. Rimango lì, guardando tra le inferriate la mia porzione di mondo distorto e compresso. Rimango lì, dando le spalle alla pesante porta spalancata della mia galera, percependo l’aria fresca che prepotentemente mi accarezza.
Rimango lì, codardo, immaginando il mondo che vorrei.
 

Notturno

Ho sognato di fare due passi con il mio passato, passando attraverso i pensieri o scegliendoli col setaccio.
Senza una logica, almeno apparente, perché il flusso pare incontrollato e le associazioni impossibili da ricostruire dopo pochi istanti.
Capita così che il tempo trascorra, con tutta questa vita dentro, senza logica, e quella fuori che di logica pare averne ancor meno.
Il futuro dovrebbe essere la sintesi, di ciò che il flusso dice e di ciò che la vita fa intravedere: dovrebbe appunto.
 
 
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