Minuti fantastici

Che devo andare dall’oculista lo capisco dai fanali della macchina che frena davanti a me: la luce si allunga e sfoca, mi infilo un dito dentro l’occhio stropicciandolo, spingo forte li dove quando piango esce la prima lacrima, le altre poi scelgono loro se e dove cadere. Hanno cambiato la viabilità, rifanno i marciapiedi, i lampioni, tutto insomma anche se nessuno cammina, forse li fanno per i cani, come il mio che senza guinzaglio va dove gli pare e piscia su tutto.
Ho un moto di gioia nel vedere che la macchina che mi precede è più vecchia della mia, che è già maggiorenne, quindi quella è vecchissima. Godere di qualcosa mentre aspetto mi fa sentire meglio e in fondo, visto che nella vita si aspetta sempre qualcosa, mi do una giustificazione stupida e banale sul perché godiamo della piccole e grandi disavventure che capitano agli altri.
La cosa che più mi fa incazzare è che so che arrivato a quel punto che non vedo, dove mi pare ci sia il grosso del problema, troverò un vigile comunale con la sua paletta che cerca di dirigere quello che si potrebbe dirigere autonomamente con qualche “vavvanculo” e “brutta puttana chi ti ha dato la patente?”.
Mi accorgo che quasi tutti i cd che ho in macchina contengono qualche pezzo di Vasco, compreso questo e penso che mi ha rotto un po’ le palle, lui, la Svizzera, Topo Gigio, Sally che con una mano si sfiora e pure Ligabue, visto che in un modo e nell’altro si infila pure lui nelle mie compilation di dubbio gusto e coerenza.
Arrivo a quel punto che non vedevo e non trovo un vigile, ne trovo tre. Scalo in seconda, procedo a passo d’uomo, apro il pugno che stringe il pomello del cambio e alzo il dito medio, tenendo la mano bassa, appoggiata sul sedile del passeggero, che non mi vedano da vero codardo, quando gli scivolo accanto ne punto uno che sta guardando da un’altra parte e mi esce “andate a prendervelo nel culo teste di cazzo”. A quel punto mi accorgo che l’altro guardava dritto dentro il mio abitacolo e allora già che c’ero: “si hai capito bene” e via verso casa a mangiare il risotto con il radicchio di Treviso comprato a Pordenone.
Quando faccio queste stronzate me ne pento dopo cinque minuti, ma prima di quel momento sono minuti fantastici.
 

Senza strade

Non so perché ma a quest’ora i pensieri spesso diventano propositi. Come se per giustificare il fatto d’esser ancora sveglio servisse una scusa; perché i propositi sono scuse: soprattutto quelli buoni. Allora mi metto a scrivere pensando ad altro, per cancellarli, perché preferisco lasciarli ad altri, a quelli che ci credono davvero.
Scrivo inseguendo un pensiero stronzo che rimbalza nella testa e che non riesco a levarmi, oppure cercando di mettere a fuoco quella buona idea venutami un giorno in metro, quando appena entrato sentii il freddo dell’aria condizionata scendermi nei polmoni e la puzza della gente entrarmi in bocca attraverso il naso.
Scrivo dicevo, inseguendo qualcosa, ma senza dire niente a te che leggi, un po’ per vezzo e un po’ per farti un dono: pensieri autonomi, senza strade, solo incoraggiati.
 

Al di là del Bene e del Male: Eluana vive

Vi propongo questi due pezzi, uno a firma mia e l'altro di un caro amico. Per portare due opinioni, entrambe a mio giudizio valide e rispettabili, anche se opposte.

Eluana è viva. Viva nel senso che finalmente può decidere, non può far sentire la sua voce, né comunicare con il corpo per spiegare le proprie ragioni, ma lo fa attraverso un’altra vita: quella del padre.
Se qualcosa infatti in questi tempi di sola scienza ancora conta, sono proprio i legami tra le persone, di sangue, tra padre e figlia.
Sono trascorsi diciassette anni da quel maledetto 18 gennaio del 1992, quando Eluana per un crudele destino che accomuna purtroppo migliaia di persone, è passata dalla gioia di vivere dei suoi vent’anni, ad una condizione di non morte e non vita. Un limbo per nulla paragonabile con l’immagine del Purgatorio trasmessaci dalla tradizione letteral-cristiana. Il suo corpo è infatti ancora terreno, tenuto in essere da un sondino meccanico che, come una catena, la tiene al guinzaglio: lì.
Ecco allora che in un momento tragico come questo, in cui la coscienza si sente smarrita di fronte ad un avvenimento che va “al di là del bene e del male”, ci viene in soccorso l’amore del padre nei confronti del figlio, la sua pietà, che se i “catto-benpensanti” non permettono di definire cristiana, certamente molto ha a che vedere con la pietas latina, intesa come quel sentimento di rispetto assoluto per la famiglia e per i propri componenti, come se quel nucleo fosse la metafora della conoscenza del tutto.
Non si può decidere per la vita d’altri, è vero, ma non si può nemmeno capire fino in fondo se certi drammi non si vivono sulla propria pelle. E quando anche Dio, a volte, sembra non aver scelto, affidarsi a chi quella vita l’ha generata e curata, pare davvero la decisione più naturale.

di Alessandro Bressan

Sulla vicenda di Eluana sono entrati in campo forze ideologiche, volte a scardinare il sottofondo valoriale della convivenza civile. Nella tragedia di Eluana hanno identificato uno strumento straordinario per fare breccia nel sistema di valori, patrimonio vitale di questa società. A quel punto tutto è saltato o è stato stravolto: la logica, il buon senso e la semantica. Lascia ad esempio stupefatti che il medico che dovrebbe accompagnare alla morte Eluana, a precisa domanda sulla sofferenza eventualmente procurata dalla sospensione di cibo e acqua, dica: «Nessuna sofferenza, perché Eluana è morta diciassette anni fa». Allora avevano ragione le Suore misericordine di Lecco, quando supplicavano il papà, che diceva la stessa cosa del medico, di essere conseguente, di lasciare loro questa sua figlia, che ormai – avendola loro da sempre accudita – consideravano di casa. Se Eluana è morta 17 anni fa perché accanirsi con tanta protervia per farla morire davvero? Se Eluana non soffrirà, perché disporre di sedarla?
Pensiamo al Friuli, terra martoriata anche da invasioni, guerre, miseria, emigrazione. Ma terra di vita. Tutti hanno potuto toccare con mano questa verità nella tragedia dei terremoti del 1976. Mille morti, moltissimi feriti, centinaia di migliaia di senza tetto, ma un popolo tenacemente aggrappato alla vita. Un popolo abbattuto ma non disperato, colpito a morte ma non rassegnato. E il Friuli è tornato a vivere e i friulani hanno saputo trasformare le loro lacrime in sudore di ricostruzione e rinascita. E i paesi sono risorti come per miracolo, dove e come prima del terremoto e anche più belli. Una sorta di miracolo collettivo. Dovuto a cosa? Alla straordinaria energia prodotta dalle sue radici umane e cristiane, dove il rispetto e la promozione della vita erano al primo posto. Un popolo, quello friulano, che aveva un alto senso della vita e dunque anche un’attenta e rispettosa valutazione della morte.
Si nasceva in casa e in casa si voleva morire, circondati dall’amore solidale dei propri cari. A nessuno veniva in mente di abbreviare il tragitto verso la morte. Quella era una “pietà” riservata agli animali. Per gli umani c’era un diuturno addestramento alla sofferenza propria e altrui e alla resistenza.
E dinanzi alle più grandi difficoltà si veniva educati (ma per fortuna accade ancora) non alla rassegnazione alla morte ma alla perseveranza nell’amore alla vita. Tutt’altro rispetto a questa marcia forzata verso la morte.

di Andrea Camaiora

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Brandelli

Hendrix, tavolo, armadio, letto e io disteso, guardando le casse dello stereo.
Vorrei questa scena divenisse: in eterno. Intaccando, portando con sé il suo meglio per me, per ricordarmi cos’ ero e cosa sentivo, in un istante apparentemente inutile di una vita.


Poi ti accorgi che non sei come credi, che in fondo sei come non volevi, almeno in parte sei anche tu altre persone. Nei gesti, nei pensieri e nelle parole che non puoi fermare. Sei di tanti un pò e vorresti dire basta. Cerchi di importi a tuo modo, ma quei gesti e soprattutto quelle parole torneranno.
 
 
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