Stanze

Guida piano e composto la sua Jaguar. Stringe il volante in pelle con la mano sinistra e il cambio in acciaio con la destra: caldo, freddo. Fuori si gela, dentro si respira la stessa aria che c’è fuori ma scaldata dai tubi che corrono vicino al motore. La radio suona per sé.

E’ teso. Molto teso. La decisione è presa e non tornerà indietro.

Apre la porta blindata con la chiave lunga, quella che ha sempre odiato perché non sta in nessun pantalone. Appoggia la The Bridge a terra, vicino allo spiraglio delle luci neon a pavimento costate 1.352 euro. Ricorda ancora la fattura. Le ha volute lui perché gli piacevano con il pavimento bianco, lo stesso che aveva visto su AD. Sfilandosi il Moncler sente cadere un bottone della giacca a terra, è il secondo della manica destra, lo sa, non ha bisogno di guardare, era da qualche giorno che pendeva tenuto su da un niente. Lo lascia lì a terra: staccato.

- Ciao tesoro.

- Dobbiamo parlare.

E dicendolo si siede su uno dei due sgabelli che hanno voluto di contorno alla penisola della cucina. Stupenda. La cucina è nera. Stupenda. Unisce design, funzionalità e robustezza. Stupenda.

- Certo. E’ successo qualcosa al lavoro?

Mentre lo dice però non lo guarda. Continua a tritare le verdure dandogli la schiena. Vicino ai lavelli quadrati. Stupendi.

- Smettila, dobbiamo parlare. Ascoltami.

Aggancia le gambe allo sgabello, tiene la schiena dritta e allunga una mano fin sopra la testa bionda del bambino dentro il seggiolone Foppapedretti agganciato alla penisola. Stupenda. Lo accarezza una volta. Gioca con qualcosa, è impegnato.

- E’ finita. Non c’è molto da dire. Non ti amo più.

Le guarda i capelli castani perfetti che cadono sulle spalle. Il corpo da ginnasta fasciato nel vestito “fumo di Londra” che le ha regalato lo scorso fine settimana. Non ha mai visto nessuna donna così elegante cucinare, così composta. Lei lo è sempre stata: era un pregio, era motivo di fascino, se l’era immaginata così fin da ragazzo. Era.

La osserva. Lei continua nel suo lavoro. Non dice nulla. Si volta appena per prendere dell’altra verdura dal lavello. Scopre il profilo, il mento leggermente a punta che vorrebbe ritoccare dal chirurgo.

La guarda e si rende conto di quanto l’abbia amata, desiderata e vissuta.

Forse sta per avere un’erezione.

- Non dici niente?

- Cosa vuoi che dica? Cosa vuoi sentirmi dire? Che strada vuoi che prenda la storia che stai scrivendo? Come te l’eri immaginata?

Lui ascolta le sue parole. L’ha sempre ascoltata. E’ per questo che per così a lungo sono stati uno. Si accorge del leggero tremolio che le prende l’estremità destra del labbro inferiore quando è nervosa. Pensa a lei come ad una statua. Perfetta, stupenda. Una statua che trema, viva. Trema impercettibilmente. Lui sarebbe disposto a morire se la dignità di lei fosse in pericolo.

Ama la sua intelligenza. Lei sa già tutto. Sa che non ci sono motivi. Sa che è lei la più forte, o almeno che è quello il compito che le è stato dato e che non ha rifiutato. Sa che è grazie a lei che è diventato e sarà, anche senza di lei, Lui.



(La mente umana è un vortice buio nel cui abisso si intravede una luce fioca. Quella luce è una promessa. Non “La Promessa” ma “una promessa”, perché è di tutti).



Allora lui continua. Assolve il compito che si è dato. Che donna straordinaria pensa.

- Non ti amo più e basta. Non ci sono motivi. Non ci sono donne, non ci sono perché. Non ti amo e ho paura. Ho paura e scappo. Ho paura che mi manchi la parola ancora. Ti guardo. Guardo tutto questo e mi sono stufato. Mi manca l’aria. Si adesso. Non prima, mi manca l’aria adesso.

Nostro figlio non lo voglio. Non lo amo. Non mi interessa cosa sarà da grande, chi sarà. E’ una persona che non mi interessa e non mi interessano gli scompensi che potrà avere per la mancanza di un padre. Non lo voglio e basta. Non vi voglio. Non voglio più nulla che sia tutto questo e non mi dispiace.

Non sento il bisogno di chiedere scusa a nessuno.

….

Non voglio morire così. Non voglio morire dopo una vita così. Così. Così. Così. Così come si dovrebbe.

Lo so che capisci. Capisci perché eravamo noi. Capisci perché ti ho portata dentro di me. Ti ho fatto guardare. Eravamo uno. Capisci perché eravamo. Plurale, plurale, plurale! Plurale! Plurale! Plurale! Plurale! Plurale per indicare uno! Uno! Capisci!

Non vi mancherà nulla.

Si alza dallo sgabello. Lei posa il coltello, sciacqua le mani e si volta. E’ proprio come l’aveva sempre sognata. E’ lei e non sarebbe potuta essere nessun’altra.

- Vattene!

Vai, non perdere tempo.

La guarda per qualche istante. Cerca una risposta ad una qualsiasi domanda. Rimane in piedi di fronte alla statua. Fissandola. Stupenda.

Va verso l’ingresso senza curarsi del bambino. Rinfila il cappotto. Lascia la valigetta lì dov’è, prende le chiavi dell’auto. Esce.

Nel silenzio dell’ampio ascensore pensa al suo bottone: per terra, in mezzo ad un corridoio bianco illuminato con delle luci a neon. Solo.


 

Io almeno esisto

Persone. Sono solo persone. Straordinariamente solo persone.
Quando uccido qualcuno mi piace strappargli la vita, nel senso che adoro guardare il prescelto mentre tenta disperatamente di ribellarsi all'inevitabile. Gli occhi inniettati di vita come non lo sono mai stati supplicano l'inottenibile: una grazia che non concederà nessuno, un Dio che non conoscono, me, che sono il vero Dio, l'unico misericordioso che ha scelto per loro e come il primo dei giusti non e' mai tornato sui propri passi. Perche' le preghiere, le suppliche, i bisbigli notturni con la bocca coperta dalle lenzuola, non sono altro che la codardia dell'uomo di fronte a se stesso. Dio, quello che pregano loro, quello che non risponde mai, non e' altro che una decisione delegata a qualcun'altro,una fuga di fronte al senso.
Giustizia: questo sono io.
Li scanno come maiali. Mentre sono ancora anestetizzati fisso braccia e gambe con delle corde appese al muro in modo che stiano ben divaricate, al loro risveglio la prima cosa che vedono e' il carrello con gli strumenti che mi permetteranno di liberare la loro anima: un coltello affilato con lama seghettata da trentotto cm, un martello da tre chili, una cesoia e un filo da pesca. La maggior parte di loro a questo punto e' già scoppiata in un pianto disperato e inizia una litania di patetiche suppliche: adoro queste persone, sono quelle che piu' necessitano della mia misericordia. Impareranno il valore della vita perdendola.
Più cattivo di me c'e' solo il loro Dio: io almeno esisto.
 

Terra di mezzo

Della querelle tra il resuscitato “Il Giornale” e “Avvenire” senza dubbio ne potrebbero trarre vantaggio tutti, questa volta sembra incredibile a dirsi, ma potrebbero vincere anche i cittadini.

In che modo? Semplice, scegliendo di stare dalla parte giusta: e qui viene il bello.

L’homo italicus preferirà infatti rifugiarsi tra il ventoso colonnato vaticano o si ribellerà in difesa del voyeurismo mediatico dilagante?

Se da una parte troverebbe conforto nei familiari, per quanto ormai poco praticati, precetti cristiani, dall’altra avrebbe finalmente l’occasione di spazzare con un ultimo colpo di spugna anche i più antichi pudori, lasciati fino ad ora lì a traballare, un po’ per reale rispetto un po’ per timore.

Caro italiano, abbi fede! Fede in te stesso! Hai dalla tua i numeri: 7.915.000 spettatori televisivi durante la proclamazione del vincitore del Grande Fratello 9 contro gli “appena” 2.121.000 in occasione della Santa Messa tenuta a San Giovanni Rotondo lo scorso 16 giugno dal Santo Padre.

Insomma sig. Italiano, sentiti libero di scegliere, ma si coerente!

Redimiti e smetti di versare ogni domenica 1 € nel cestino delle elemosine e tonnellate di testosterone il pomeriggio di fronte al televisore, scegli una delle due e attacca chi fa la morale solo quando è toccato nell’intimo, sii migliore di molti dei tuoi precettori!

Oppure togli la maschera del buon cristiano per non offendere chi davvero lo è, sii figlio solo dei tempi e prendi tutto, arraffa a più non posso a destra e a sinistra, (da questa parte fai attenzione nelle scorribande, potresti imbatterti nel “Gran Maestro protettore del Tempio” San Travaglio, il più Giusto dei Giusti, pronto a bacchettarti dall’alto del suo colle immacolato), cancella morale collettiva, spiritualità e pudore, sii per una volta fondamentalista in qualcosa, fosse anche del niente!

Insomma Italiano, hai finalmente l’occasione di ribellarti come mai prima, le carte sono tutte scoperte: informazione, politica, fede. Italiano! Facciamo la Rivoluzione! Cambiamo faccia al Paese, trasformiamolo in un feudo Vaticano, abbandoniamo i falsi miti di ricchezza e piacere, salpiamo da questa “terra di mezzo”, (mezzo moralismo, mezzo piacere, mezza fede), strappiamo dalle pagine di grammatica i verbi condizionali e votiamoci all’indicativo!

Oppure togliamo l’insegna sbiadita “Bel Paese” in favore di quella luminosa “Il Paese dei Balocchi”, facciamo carta straccia delle leggi Merlin e sulla privacy, sostituiamo in ogni pubblica piazza le statue marmoree con donnine e bell’imbusti in carne ed ossa, costruiamo palazzi interamente di vetro uno di fronte all’altro e andiamoci a vivere! Saremo liberi, sapremo tutto, avremo sempre qualcosa da fissare, finalmente guarderemo solo fuori!

Dai piccolo grande uomo italico non perdere “l’ Occasione”! Non rimanere a centro strada, dipende da te! Tutti gli interpreti in gioco purtroppo, per quanto tengano toni accesi e attizzino i carboni, continuano a non discostarsi dalle rotaie del condizionale, della “terra di mezzo”. Italiano sii uomo, anzi sii maschio: facciamo “Una” rivoluzione!

Ahimè è già domani.


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Le lance dei soldati

Adesso lo vado a trovare poco. Solo quando ne sento davvero la necessità e sono nei paraggi. Prima di arrivare abbasso sempre la musica dell’autoradio, se è già bassa l’abbasso ancora. Varcato il cancello sento subito il ghiaino sotto le scarpe, fa “scs scs”: mi piace. Il ghiaino è brutto da vedere ma quando ci passeggi e c’è silenzio fa un suono stupendo.

Cammino piano, composto, come se qualcuno fosse lì a guardarmi, anzi, peggio ancora a giudicarmi. Mi avvicino scansando dei fiori, tocco la foto e metto una mano sul marmo intiepidito da una giornata rovente. Non faccio il segno della croce, se lo faccio è solo mentale.

Ormai non mi commuovo più, non chiedo più niente, rimango in silenzio e basata. Penso che non sia male questo posto. Si vedono le vette delle montagne, belle dritte come lance di soldati, oggi poi il cielo è così terso che sembra di poterle toccare. Fa caldo, canta il corpo di una cicala.

Forse dovrei pregare. Forse non se lo merita, forse non se lo merita nessuno. Forse dovrei credere. Penso ad un racconto che ho letto in cui si ipotizzava che i morti sapessero tutto: tutto, qualsiasi cosa. Triste. Morire non sarebbe più come il raggiungimento di qualcosa ma una condanna.

Penso un paio di cose che vorrei che capisse. Tocco di nuovo la foto, mi volto e torno sul ghiaino. Una donna fa giardinaggio su una tomba vicino al cancello d’ingresso. E’ grassa e ha i baffi. Mi sorride. Sorrido pacatamente, come si conviene, come la pensassi come lei.

La scritta dice “E' tra le braccia di Dio”, io penso - che posto di merda, vicino al cancello, e non si vedono neppure le lance dei soldati -.

 

Ritorni

Aprendo la porta, a causa della scarsa luce che entra dai vecchi balconi, gli occhi ci mettono qualche istante ad incollare il ricordo del salone d’ingresso con la realtà. Faccio un passo, lento ma sicuro, come un esploratore che dopo anni di avventure ritorna nel luogo della sua prima scoperta.

Chiudo la porta alle mie spalle spingendo con il palmo della mano lo stipite dietro la schiena, con la forza giusta, senza farla sbattere, come si riesce a fare in quel luogo che chiami casa. Solo, quasi silenzio dentro, fuori la città quasi rumorosa: è mezzo giorno e io sono mezzo felice, mi siedo.

Mi lascio cadere sul divano che ricordavo più morbido, ma forse anche lui mi ricordava più leggero. Rimango seduto sulla punta del cuscino, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, con le mani sorreggo la testa, resto così. Osservo danzare la polvere sui listelli del parquet, sembra spinta dai raggi di luce che si fanno strada prepotentemente dagli infissi, fuori Roma brucia, l’estate appena iniziata scioglie già l’asfalto e scotta le spalle di turiste dalla testa rossa e dall’accento inglese. I turisti sono sporchi. Lo penso sempre e ho ragione. I turisti toccano tutto, si siedono ovunque, mangiano panini comprati in chioschi che mi fanno mal di stomaco solo a guardarli. I turisti puzzano, puzzano di metropolitana e di autobus, di aeroporti e voli in classe economica, di bad and breakfast che trovi su internet e di deodoranti spray. Odio i piedi neri dei turisti. Calzano infradito bianche sudice o sandali da frate comboniano che non aspettano altro di sfilarsi per mostrarti le piante nere di tutto ciò che può raccogliere l’asfalto.

Guardo le mie scarpe da ginnastica.

Rimango lì ancora per un po’, la giornata è lunga, sono tornato.

 

Bagnasciuga

Vedo persone passare, tra me e il mare, sul bagnasciuga, lasciano impronte, una accanto all'altra. Sento il loro vociare, capto parole, anche in altre lingue, sento risate, versi, dialetti, mugolii, bestemmie. È la gente, sono io. Mi capita poi di chiedermi da dove vengono, che lavoro fanno, chi sono, quanto hanno sofferto e quanto hanno riso. Succede che quando vedo una faccia, o un corpo che si muove, mi sembra di capire molto dell'anima che trasporta dentro, come se il guscio fosse il contenuto: sbaglio. Però in quel momento la vita che immagino è mia, glie l'ho scippata di dosso, appartiene solo a me. Per cui che importanza ha se quella faccia per me lavora in banca, se quelle braccia caricano sacchi di cemento, se quelle mani lavano capelli o quelle gambe si aprono solo per commettere adulterio? Nessuna per loro, molta per me, ma forse vale anche il contrario.
Penso alle loro vite, per pensare alla mia è chiaro, magari le parole che sento mi ci fanno ricamare sopra una storia: "ma lui dice che non si fida".
Questa, con quel culo sicuro è una furba, fa la segretaria da un notaio, lavora fino alle sei del pomeriggio e tre volte alla settimana va in palestra e si infila in una tutina aderente fuxia, segue un corso di kick box perché con la gente che gira non si sa mai, e uno di pilates che non sa nemmeno che cazzo vuol dire ma lo fanno tutti. Sta comunque pensando di lasciare questo corso a favore di uno di acqua jim perché lo fa anche la sua migliore amica e dice che non ha più un filo di cellulite e che con il maestro si trova tanto bene. Da qualche anno vive da sola, in un bilocale in centro, e sopra la tv ha una pianta grassa perché proprio da quella scatola una sera un professor Tizio ha detto che mangia tutte le radiazioni, rendendo l'ambiente più salubre, (questa parola per altro le è piaciuta talmente tanto che il giorno seguente, in ufficio, ha trovato un pretesto per usarla dicendo: "da quando vado in palestra mi sento più salubre"). Naturalmente con il suo lui ancora non convive perché è troppo presto e poi in fondo chi glielo fa fare a perdere la sua indipendenza, per sposarsi e iniziare a cambiare pannolini, cospargendo piccoli genitali arrossati con il fissan, c'è sempre tempo. Poi lui è troppo possessivo, le fa le scenate se mette la gonna un po' più corta del solito e a volte la chiama al lavoro con una scusa per sapere come è vestita. Non si vuole sentire oppressa, proprio ora che ha tutto: un buon lavoro, la casa in centro, la donna che una volta alla settimana viene a sistemarla e a stirare, la nuova y color panna che con ancora 32 rate sarà sua e un guardaroba da urlo, perché ha un' amica che lavora allo spaccio e quindi le fa lo sconto sullo sconto.
In conclusione "ma lui dice che non si fida" a mio giudizio fa bene perché quella cena con il notaio non è per lavoro, ma per approfondire la prova orale che è già stata superata con il massimo dei voti.
Va così, che pensi questo delle persone che vedo, e anche di molto peggio, anche di meglio però, solo che lì le storie che mi vengono sono molto più brevi: i buoni spesso mi risultano noiosi, come i corpi che li contengono.
Al di la di quello che posso pensare, la gente, io, continua a sfilare su quel bagniasciuga, mettendo un'impronta affianco all'altra, qualcuna resiste più a lungo alla carezza delle onde, altre neppure il tempo di delinearsi, nemmeno te ne accorgi e già la sabbia è lucida sotto il sole ad aspettare qualcun'altro.
Io non so che impronta lascio, mentendo mi convinco che non me ne curo, però ho capito che il segreto è camminare, senza esitare, riprendersi subito dalle buche, far finta di non sentire i tagli delle conchiglie, per arrivare a quel punto sull'orizzonte, dove mare, cielo e sabbia diventano tutt'uno.
 

Il filo del niente mi parla di tutto

Notti come questa sono una tregua, una tana immaginaria in cui rifugiarsi, uno stato mentale rigenerante.
Invece di fare, (qualsiasi cosa), si è: inspiegabilmente e autonomamente trasportati da un filo che si srotola piano, senza seguire percorsi obbligati.
Così gli attimi diventano minuti, i minuti ore e Jeff Buckley nello stereo diventa solo musica e poi silenzio.
Gli unici suoni provengono dai pensieri che alla rinfusa si accavallano in testa, senza un’apparente logica compongono il momento dell’essere.
Istanti, minuti, qualche ora, comunque infinitamente nulla, in cui tutto il percepito quotidiano propone se stesso, in un vortice di balzi ci ricorda chi siamo.
È in questo stato di caotica quiete che osservo la plafoniera appesa al soffitto: intuisco che il puntino nero che vi galleggiava dentro non era un insetto morto ma uno vivo, che probabilmente ora si nasconde in qualche angolo della camera aspettando che mi addormenti per entrarmi nell’orecchio e mangiarmi il cervello. Forse è dietro i libri.
Libri che mi hanno dato: una parete in meno da riempire, insegnamenti preziosi, noia assoluta, notti insonni, mi hanno reso interessante spesso, noioso altrettanto, un paio di volte mi hanno aperto camere da letto, di sicuro hanno piegato le mensole su cui sono stipati con l’effetto che prima o poi cadranno portandosi dietro tutti i cd, tra cui “From the Muddy Banks of the Wishkah” che è un live mediocre dei Nirvana che non si caga nessuno ma a me piace da matti.
Penso allora a Kurt Cobain e l’abito di Canali che stropiccio rimanendo disteso, mi ricorda che forse non sono cosi “Grunge” come un tempo, che per spararsi in bocca con un fucile come ha fatto lui, oltre ad un fucile, appunto, e ad una pallottola, servono braccia lunghe, e lui, al contrario di me, era piuttosto basso.
 

Un'ipotesi di senso

Solo ora capisco molte cose. Una su tutte il senso di inutilità che mi generava la vita degli altri. In fondo, sono solo “altri”. Capisco davvero la dimensione spazio e il concetto tempo. Capisco, anche quello che non so, ora lo capisco. Un senso di assoluta certezza di fronte al tutto, inteso come pieno e non più come immensità da riempire. Capisco l’importanza delle parole, soprattutto di quelle non dette. Non sono più alcune le cose che capisco ma tutte. Capisco che Dio non esiste ma è sempre esistito dentro di me, capisco che anch’io sono Dio. Capisco che non svilupperò più concetti come: dubbio, possibilità, errore, incertezza, vuoto, inadeguatezza.
Capisco l’assoluta ricchezza della povertà sensitiva in cui mi trovavo. Capisco solo ora il mondo che non ho più, e di questo “solo ora” ne capisco il perché.
Capisco, ora che sono morto, il senso del mio vivere.
 

Abbastanza

- Dammi una sigaretta.
- Non puoi fumare.
- Dammi una sigaretta per favore.
- No!
- Ho detto dammi una cazzo di sigaretta!
Pensa che gli piace persino il sapore del filtro in bocca mentre è ancora spenta.
- L’accendino. Ci stanno seguendo. Ci hanno trovati. Accendi cazzo.
Pensa che la benzina non è molta ma è abbastanza per scappare. Pensa che il fumo che entra nella bocca e scende nella gola vale la pena. Pensa alla prossima boccata che continuerà a fare tenendo le mani strette sul volante e il piede sull’acceleratore.
- Dove hai messo i soldi?
- Qui.
- Tirali fuori tutti e mettiteli addosso!
- Come? Dove?
- Muoviti, mettiteli dove cazzo ti pare ma nascondili addosso.
- Ti prego, sono vicini.
Pensa che non riesce più a trattenere la tosse, che deve togliere la sigaretta dalle labbra e stringerla tra le dita. Pensa che insieme all’aria gli stiano uscendo anche i polmoni.
- Cazzo.
- Stai sputando sangue! Ho paura.
- Tieniti, proviamo a passare di lì.
Pensa che probabilmente le persone che ha investito per tagliare la curva sono già morte oppure come lui stanno sentendo il sapore del sangue in bocca.
- Non li vedo. Tu li vedi?
- Non li vedo. Dove andiamo? Sei pieno di sangue, ti prego fermati!
Pensa che i puntini neri che inizia a vedere lo porteranno presto allo svenimento. Pensa che gli piacerebbe vivere almeno per consumare la benzina nella macchina che poco prima gli sembrava “abbastanza”.
- Adesso mi fermo e scendi!
- No! Non ci penso nemmeno.
- Ho detto che scendi!
- Ti prego, sei pieno di sangue fermati.
- Vai, scappa! Sai dove devi andare, hai soldi abbastanza per tutto quello che ti serve!
- No, ti prego. Ti amo.
Pensa che mentre la spinge fuori dalla macchina è l’ultima volta che sentirà il contatto con la sua pelle. Pensa che sono gli ultimi battiti del cuore che lo tengono in vita e vorrebbe contarli. Pensa che è meglio così piuttosto che in un letto. Pensa che potrebbe dirle ti amo. Pensa che le parole che dirà saranno le ultime, perché la vita gli è già scivolata via con il sangue che ormai, dalla bocca, si è riversato su tutto. Pensa che sono le ultime parole e vuole giocarsele bene.
- Lasciami le sigarette.
 

Volevo dirle

Volevo dirle che era da un pò che non sentivo il rumore della ghiaia sotto le scarpe, nel senso che l'ascoltavo. Volevo dirle cose belle, che la facessero ridere, che la costringessero a mostrare i denti bianchi sotto il sole, a pensare a me quando meno se lo sarebbe aspettato. Volevo tutto questo per me. Perchè non sono un santo, perchè è la ricerca del piacere personale che ci porta a far star bene gli altri. Volevo dirle che lei era una vita possibile, un sentiero che sarebbe stato bello percorrere, ma non era abbastanza, io non ero abbastanza.
Volevo dirle che le cose vanno sempre come devono andare anche quando non sono giuste, che sentivo un peso schiacciarmi il petto, come quando ho la certezza di aver fatto qualcosa di sbagliato.Volevo dirle cose intelligenti per sentirmi intelligente e che quando ascolto "Lilac wine" penso a lei e a quello che sarebbe potuto essere.
Volevo dirle un sacco di cose e non ho detto niente, ho camminato concentrandomi sulla ghiaia, sui quasi sorrisi e sulle parole per non farle del male, anzi, visto che non sono un santo, per non fare del male a me.
 

Minuti fantastici

Che devo andare dall’oculista lo capisco dai fanali della macchina che frena davanti a me: la luce si allunga e sfoca, mi infilo un dito dentro l’occhio stropicciandolo, spingo forte li dove quando piango esce la prima lacrima, le altre poi scelgono loro se e dove cadere. Hanno cambiato la viabilità, rifanno i marciapiedi, i lampioni, tutto insomma anche se nessuno cammina, forse li fanno per i cani, come il mio che senza guinzaglio va dove gli pare e piscia su tutto.
Ho un moto di gioia nel vedere che la macchina che mi precede è più vecchia della mia, che è già maggiorenne, quindi quella è vecchissima. Godere di qualcosa mentre aspetto mi fa sentire meglio e in fondo, visto che nella vita si aspetta sempre qualcosa, mi do una giustificazione stupida e banale sul perché godiamo della piccole e grandi disavventure che capitano agli altri.
La cosa che più mi fa incazzare è che so che arrivato a quel punto che non vedo, dove mi pare ci sia il grosso del problema, troverò un vigile comunale con la sua paletta che cerca di dirigere quello che si potrebbe dirigere autonomamente con qualche “vavvanculo” e “brutta puttana chi ti ha dato la patente?”.
Mi accorgo che quasi tutti i cd che ho in macchina contengono qualche pezzo di Vasco, compreso questo e penso che mi ha rotto un po’ le palle, lui, la Svizzera, Topo Gigio, Sally che con una mano si sfiora e pure Ligabue, visto che in un modo e nell’altro si infila pure lui nelle mie compilation di dubbio gusto e coerenza.
Arrivo a quel punto che non vedevo e non trovo un vigile, ne trovo tre. Scalo in seconda, procedo a passo d’uomo, apro il pugno che stringe il pomello del cambio e alzo il dito medio, tenendo la mano bassa, appoggiata sul sedile del passeggero, che non mi vedano da vero codardo, quando gli scivolo accanto ne punto uno che sta guardando da un’altra parte e mi esce “andate a prendervelo nel culo teste di cazzo”. A quel punto mi accorgo che l’altro guardava dritto dentro il mio abitacolo e allora già che c’ero: “si hai capito bene” e via verso casa a mangiare il risotto con il radicchio di Treviso comprato a Pordenone.
Quando faccio queste stronzate me ne pento dopo cinque minuti, ma prima di quel momento sono minuti fantastici.
 

Senza strade

Non so perché ma a quest’ora i pensieri spesso diventano propositi. Come se per giustificare il fatto d’esser ancora sveglio servisse una scusa; perché i propositi sono scuse: soprattutto quelli buoni. Allora mi metto a scrivere pensando ad altro, per cancellarli, perché preferisco lasciarli ad altri, a quelli che ci credono davvero.
Scrivo inseguendo un pensiero stronzo che rimbalza nella testa e che non riesco a levarmi, oppure cercando di mettere a fuoco quella buona idea venutami un giorno in metro, quando appena entrato sentii il freddo dell’aria condizionata scendermi nei polmoni e la puzza della gente entrarmi in bocca attraverso il naso.
Scrivo dicevo, inseguendo qualcosa, ma senza dire niente a te che leggi, un po’ per vezzo e un po’ per farti un dono: pensieri autonomi, senza strade, solo incoraggiati.
 

Al di là del Bene e del Male: Eluana vive

Vi propongo questi due pezzi, uno a firma mia e l'altro di un caro amico. Per portare due opinioni, entrambe a mio giudizio valide e rispettabili, anche se opposte.

Eluana è viva. Viva nel senso che finalmente può decidere, non può far sentire la sua voce, né comunicare con il corpo per spiegare le proprie ragioni, ma lo fa attraverso un’altra vita: quella del padre.
Se qualcosa infatti in questi tempi di sola scienza ancora conta, sono proprio i legami tra le persone, di sangue, tra padre e figlia.
Sono trascorsi diciassette anni da quel maledetto 18 gennaio del 1992, quando Eluana per un crudele destino che accomuna purtroppo migliaia di persone, è passata dalla gioia di vivere dei suoi vent’anni, ad una condizione di non morte e non vita. Un limbo per nulla paragonabile con l’immagine del Purgatorio trasmessaci dalla tradizione letteral-cristiana. Il suo corpo è infatti ancora terreno, tenuto in essere da un sondino meccanico che, come una catena, la tiene al guinzaglio: lì.
Ecco allora che in un momento tragico come questo, in cui la coscienza si sente smarrita di fronte ad un avvenimento che va “al di là del bene e del male”, ci viene in soccorso l’amore del padre nei confronti del figlio, la sua pietà, che se i “catto-benpensanti” non permettono di definire cristiana, certamente molto ha a che vedere con la pietas latina, intesa come quel sentimento di rispetto assoluto per la famiglia e per i propri componenti, come se quel nucleo fosse la metafora della conoscenza del tutto.
Non si può decidere per la vita d’altri, è vero, ma non si può nemmeno capire fino in fondo se certi drammi non si vivono sulla propria pelle. E quando anche Dio, a volte, sembra non aver scelto, affidarsi a chi quella vita l’ha generata e curata, pare davvero la decisione più naturale.

di Alessandro Bressan

Sulla vicenda di Eluana sono entrati in campo forze ideologiche, volte a scardinare il sottofondo valoriale della convivenza civile. Nella tragedia di Eluana hanno identificato uno strumento straordinario per fare breccia nel sistema di valori, patrimonio vitale di questa società. A quel punto tutto è saltato o è stato stravolto: la logica, il buon senso e la semantica. Lascia ad esempio stupefatti che il medico che dovrebbe accompagnare alla morte Eluana, a precisa domanda sulla sofferenza eventualmente procurata dalla sospensione di cibo e acqua, dica: «Nessuna sofferenza, perché Eluana è morta diciassette anni fa». Allora avevano ragione le Suore misericordine di Lecco, quando supplicavano il papà, che diceva la stessa cosa del medico, di essere conseguente, di lasciare loro questa sua figlia, che ormai – avendola loro da sempre accudita – consideravano di casa. Se Eluana è morta 17 anni fa perché accanirsi con tanta protervia per farla morire davvero? Se Eluana non soffrirà, perché disporre di sedarla?
Pensiamo al Friuli, terra martoriata anche da invasioni, guerre, miseria, emigrazione. Ma terra di vita. Tutti hanno potuto toccare con mano questa verità nella tragedia dei terremoti del 1976. Mille morti, moltissimi feriti, centinaia di migliaia di senza tetto, ma un popolo tenacemente aggrappato alla vita. Un popolo abbattuto ma non disperato, colpito a morte ma non rassegnato. E il Friuli è tornato a vivere e i friulani hanno saputo trasformare le loro lacrime in sudore di ricostruzione e rinascita. E i paesi sono risorti come per miracolo, dove e come prima del terremoto e anche più belli. Una sorta di miracolo collettivo. Dovuto a cosa? Alla straordinaria energia prodotta dalle sue radici umane e cristiane, dove il rispetto e la promozione della vita erano al primo posto. Un popolo, quello friulano, che aveva un alto senso della vita e dunque anche un’attenta e rispettosa valutazione della morte.
Si nasceva in casa e in casa si voleva morire, circondati dall’amore solidale dei propri cari. A nessuno veniva in mente di abbreviare il tragitto verso la morte. Quella era una “pietà” riservata agli animali. Per gli umani c’era un diuturno addestramento alla sofferenza propria e altrui e alla resistenza.
E dinanzi alle più grandi difficoltà si veniva educati (ma per fortuna accade ancora) non alla rassegnazione alla morte ma alla perseveranza nell’amore alla vita. Tutt’altro rispetto a questa marcia forzata verso la morte.

di Andrea Camaiora

Questi articoli li travate anche QUI.
 

Brandelli

Hendrix, tavolo, armadio, letto e io disteso, guardando le casse dello stereo.
Vorrei questa scena divenisse: in eterno. Intaccando, portando con sé il suo meglio per me, per ricordarmi cos’ ero e cosa sentivo, in un istante apparentemente inutile di una vita.


Poi ti accorgi che non sei come credi, che in fondo sei come non volevi, almeno in parte sei anche tu altre persone. Nei gesti, nei pensieri e nelle parole che non puoi fermare. Sei di tanti un pò e vorresti dire basta. Cerchi di importi a tuo modo, ma quei gesti e soprattutto quelle parole torneranno.
 

Mi vengono così, che ci posso fare...


Trovare donne disponibili è facile, il problema è trovarle disponibili a fare quello che vuoi tu.
 

Wake up


E' con grande piacere che faccio questa marchettona ad una persona che oltre ad essere un amico è anche un gran bel pezzo di artista!

Molti di voi già conoscono Marco Ciligot e quindi sono certo che visiterete numerosi la mostra di Trieste.

Per chi invece non lo conosce è un'occasione importante per osservare da vicino le opere di un ragazzo che sicuramente farà parlare di se!

Non fate gli asini, perché abbiamo tutti bisogno dell'appoggio degli altri per coltivare i nostri sogni!
 

La Parabola del Divo Giulio

Che Andreotti non sia un santo non c’è dubbio. Ispirati da una frase a lui attribuita nel film “Il Divo” di Paolo Sorrentino, “i preti votano, Dio no”, potremmo anche aggiungere che “se i santi esistessero non farebbero politica” o per lo meno non la farebbero in Italia. Questo non per il solito populismo spiccio, secondo il quale il Belpaese era e sarà sempre governato da arruffoni e faccendieri di ogni tipo, ma perché, semplicemente la res publica, deve per forza di cose avere anche a che fare con tali arruffoni e faccendieri oltre che con le brave persone, che sono tante, almeno quanti sono i preti e i Santi già canonizzati.
Detto ciò quando parliamo di Giulio Andreotti in riferimento ad un avvenimento, dobbiamo anche contestualizzarlo storicamente, e non è un’operazione facile perché, compiuti oggi novant’anni, stiamo parlando di un uomo che ha visto nascere la Repubblica, è stato per sette volte Presidente del Consiglio e, con un incarico o con un altro, per cinquant’anni si è trovato alla guida del Paese.
Di Andreotti oggi sono soprattutto le vicende giudiziarie a colpire l’immaginario comune, e questo per una peculiarità tutta italiana, trasformare i procedimenti giudiziari in sentenze di colpevolezza prima del giudizio finale. Che poi l’imputato venga assolto, com’è successo per il senatore a vita, poco importa all’ “osservatore medio” e soprattutto a certa informazione, che sembra proprio lì appositamente a mantenere e produrre “osservatori medi”. Andreotti comunque, rifugiandosi nel suo proverbiale aplomb e nel suo archivio personale, ha sempre cercato di non dare adito a polemiche sterili e esterne alle aule di tribunale, in cui si è costantemente recato per seguire in prima persona le udienze. Rispetto delle istituzioni questo, da non sottovalutare, considerando anche la moda tutta italiana di inscenare nei salotti televisivi processi paralleli e delegittimazioni continue della magistratura.
Il paradosso poi risiede nel fatto che in molti sono pronti ad applaudire a tali attacchi allo Stato, prendiamo il caso del film “Il Divo” appunto, in cui salvata l’interpretazione straordinaria di Toni Servillo nei panni di Andreotti, si fa una ricostruzione delle vicende giudiziarie del senatore fumosa e tendenziosa, orchestrata da una regia più atta a spargere il seme del dubbio che quello della chiarezza. Strano che nessuno si adiri per questo, che nessuno insorga in tutela delle sentenze di assoluzione emesse dalla magistratura “in nome del popolo italiano”, ma anzi si premi ancora una volta la delegittimazione dello Stato, di chi l’ha rappresentato e soprattutto di chi è preposto a tutelarlo. Ma tant’è, questa è l’Italia e Andreotti l’ha conosciuta bene.

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Convenienza e Fede



Era meglio se mi facevano credente, almeno non cercavo Dio tutte le notti.



Nota a margine (anche se a margine non è): la grammatica di questa frase non è delle migliori, ma l'effetto nella lettura è quello che mi interessava privilegiare. I condizionali per una volta non avrebbero dato il giusto peso a questa affermazione, che a mio giudizio se pensata, viene pensata in questo modo. Così, tanto per sistemare i feticisti della grammatica che frequentano il mio blog e so per certo essere numerosi.
 

Gente d'aeroporto ( Secondo parte)

La cosa che più mi infastidisce della "gente d'aeroporto" è il fatto d'averla, in qualche momento della mia vita, invidiata.
Invidiata per la sorta di rispetto incondizionato che si porta dietro. Non si sa per quale assurdo motivo, il cittadino medio, ritiene che se una persona viaggia tanto sicuramente deve anche valere tanto. Il vero fastidio per me sta nel rendermi conto di ragionare come il cittadino medio. Comunque un'altra cosa che ho invidiato alla "gente d'aeroporto" è il sesso, inteso come potere di scambio. E' convinzione comune infatti credere, che chi viaggia di continuo lo fa per mantenere importanti relazioni sociali: niente di più sbagliato. Il mondo è pieno di capre che pascolano da un prato all'altro senza avere accesso ad alcun tempio che conta.
Il punto è che c'è sempre chi è disposto a calarsi le braghe o la gonnella nella speranza di vedersi spalancare un portone. Ecco, è una sensazione che vorrei provare, non la sfrutterei perchè il mio carattere me lo impedisce, ma gradirei guardare negli occhi una donna che si prostituirebbe per ottenere un posto da velina. Tornerei poi a casa a raccontarlo alla mia compagna.
Lo so, suona male, ma ognuno ha le proprie debolezze.
Meno male che c'è la "gente d'aeroporto", sempre pronta a trasportare microbi e pensieri da un luogo all'altro e a suscitare, in "stanziali" come me, ragionamenti frivoli e assolutamente velleitari.

 

Gente d'aeroporto ( Prima parte)

Per un motivo o per un altro mi capita di avere spesso a che fare con "gente d'aeroporto". Persone cioè che abitualmente si muovono in aereo, ci viaggiano dentro almeno due o tre volte a settimana. Sono persone che puzzano: tutte.

Emanano lo stesso odore d'aria condizionata mescolata a rivestimento di sedile depurato con bomboletta. La pelle del viso e delle mani è sempre un pò unta e la maggior parte delle volte emana un leggero aroma di limone chimico, residuo di qualche strofinata con salvietta low quality lanciata da hostess ahimè sempre più in linea con la qualità dei servizi offerti in volo: scadenti.
Almeno una volta, bella presenza, sorriso smagliante, gentilezza fasulla con denti bianchissimi in bella mostra erano assicurai, o forse erano solo i miei ormoni più vispi e disposti ad attivare la parte dedicata alla fantasia nel mio cervello.

Comunque la "gente d'aeroporto" è anche quasi sempre "gente da cellulare", ovvero quando non volano parlano al telefono, in qualsiasi luogo, con qualsiasi scusa: c'è sempre qualcuno più importante della conversazione che stai cercando di fare con loro.
Sarà per questo che hanno sempre l'alito pesante. Ruminano di continuo caramelle dietetiche che estraggono da confezioni metalliche coloratissime, nascoste nella tasca sinistra della giacca, quella che, per capirci, le persone normali di solito non fanno scucire.

Cercano in ogni modo di riattivare una salivazione inesistente, prosciugata da troppe parole inutili e di circostanza, che sembrano nella loro testa non costare nulla, ma in realtà piano piano li distruggono, partendo dalla bocca.

Continua...forse.
 
 
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